1.0 Pronuncia, sillabazione, accento

1.0 Pronuncia, sillabazione, accento

Finora per ogni frase latina che avete incontrato negli esercizi era disponibile un file audio che indirizzava verso la pronuncia corretta di quanto scritto. Cominciamo ora a capire le regole della pronuncia: non sono molto diverse da quelle dell’italiano, ma ci sono alcune cose alle quali occorre prestare attenzione. Sarà un discorso inevitabilmente lungo, ma non difficile; e ancora per un po’ continuerete ad avere disponibile il supporto dei files audio. Non è quindi necessario memorizzare tutto approfonditamente; semmai, occorrerà prestare maggiore attenzione alla sezione su sillabazione e accento.

Alfabeto e pronuncia

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L’alfabeto è quasi identico a quello inglese: include infatti, alla fine, le lettere XYZ. Si tratta di lettere non originarie del latino, e usate soltanto nella traslitterazione di parole greche: questo spiega la loro posizione finale, conservatasi fino ad oggi. La lettera J, non inclusa nell’alfabeto latino, è usata soltanto in edizioni molto datate per distinguere la i vocalica (in ital., ad es. “idea”) da quella semiconsonantica, che non genera una sillaba autonoma (in ital., ad es. “aiuto”, sillabato “a-iu-to”). Normalmente le edizioni a stampa moderne distinguono tra u e v (ad es. unda, “onda”, e vivus, “vivo”); le edizioni più vecchie spesso usano solo u in minuscolo (ad es. uiuus) e solo V in maiuscolo (ad es. VIVVS).

Le vocali latine hanno una caratteristica chiamata quantità: esse possono cioè essere lunghe o brevi a seconda del tempo richiesto per la loro emissione. Questa caratteristica è presente anche in italiano, dove però rimane implicita dato che non serve mai a distinguere una parola dall’altra: provate ad es. a pronunciare la parola “palato” e vi renderete conto che la seconda a è più “lunga” della prima (e in generale le vocali accentate sono più lunghe di quelle senza accento). In latino, ciascuna vocale può essere lunga o breve, e la sua quantità si può indicare con un segno diacritico (non un ‘accento’) posto sopra di essa: ǎ ě ǐ ǒ ǔ y̆ sono brevi, mentre ā ē ī ō ū ӯ sono lunghe. La quantità di una vocale ha talvolta valore semantico, cioè serve a distinguere parole che altrimenti sarebbero identiche: pŏpulus ad esempio significa “popolo”, mentre pōpulus significa “pioppo”. Dato che la quantità normalmente non si segna, questo può ingenerare qualche confusione: ma normalmente in una frase non sarà difficile capire se populus ha l’uno o l’altro significato. Del resto, anche in italiano non è difficile di solito capire se “pesca” significhi “pésca” o “pèsca”.

Il latino, come l’italiano, ha dei dittonghi, cioè due vocali che formano assieme un’unica sillaba. In ital. ad es. “pausa”, che si sillaba “pau-sa” e non “pa-u-sa”. I dittonghi più comuni in latino sono ae, oe, au, eu; più rari sono ei, ui, yi. Essendo formati da due elementi, i dittonghi sono naturalmente tutti lunghi.

Come pronunciavano questi suoni gli antichi romani? La domanda è in realtà molto vaga, dato che durante i molti secoli nei quali si è parlato latino la pronuncia può essere naturalmente variata di molto. Questa vaghezza, nonché l’importanza della Chiesa nella società italiana, ha fatto sì che soprattutto in Italia si diffondesse una pronuncia che si definisce per l’appunto “ecclesiastica” o “scolastica“. Questa è giustificata da una tradizione plurisecolare, che risale in sostanza fino al Medioevo. Tuttavia, già Erasmo da Rotterdam (1467-1536) usava alcuni principi di linguistica comparata e storica tramite i quali è possibile ricostruire con buona approssimazione come si doveva parlare latino in età classica: questa è la pronuncia appunto “Erasmiana” o “scientifica“. La scelta tra l’una e l’altra pronuncia può in sostanza ridursi a preferenze personali; ma se si ha l’ambizione di capire e farsi capire in un contesto internazionale sarà bene scegliere la seconda, come faremo in questo corso. Dunque, ecco qui uno schema che evidenzia le cose a cui prestare attenzione:

  • Dittonghi: ambedue i suoni che compongono il dittongo vanno pronunciati: ad es. rosae e laetus si pronunciano come sono scritti, e non rose e letus come si fa se si adotta la pronuncia ecclesiastica. Si noti che se il dittongo porta l’accento, esso va obbligatoriamente sul primo e non sul secondo elemento: quindi ad es. Càesar e mòenia, mai Caèsar e moènia.
  • Vocali: la y si pronuncia come la u francese: lyra è quindi lüra
  • Consonanti:
    – la v si pronuncia come u semivocalico (ing. “win”, ital. “uomo”): quindi vivus si legge wiwus.
    c e g si pronunciano ‘dure’: Cicero e magis si leggono quindi Kikero e maghis
    – il gruppo gn (ad es. in pugna e magnus) ha anch’esso la g ‘dura’, come nell’ingl. “recognize”
    – la h si pronuncia come un’aspirazione, non si ignora come nella pronuncia ecclesiastica: quindi hora non si legge semplicemente ora. Questo vale anche per parole come thesaurus, philosophus, Achaei, che la pron. ecclesiastica, riduce a tesausurus, filosofus, Akei (attenti all’accento del dittongo: Achàei e non Achaèi).
    – il gruppo -ti- seguito da vocale (gratia, patientia) si pronuncia tale e quale, non -zi- come nell’ecclesiastica.

Accento

La regola dell’accento latino è estremamente semplice. Esso può cadere soltanto (ci sono come sempre alcune eccezioni, ma possiamo trascurarle) sulla penultima o terzultima sillaba. Non esistono quindi parole tronche, cioè accentate sull’ultima sillaba. Le parole di due sillabe sono necessariamente accentate sulla penultima, che è anche la prima; i monosillabi sono generalmente privi di accento (come in italiano “ci”, “mi”, “ma”, “e”, ecc.). Solo per parole di tre o più sillabe si pone il problema di scegliere tra la penultima e la terzultima, ma la scelta è facile: se la penultima sillaba è lunga, si accenta la penultima; se è breve, si accenta la terzultima. E’ solo la quantità della penultima sillaba che conta; quelle della terzultima e dell’ultima non hanno alcuna influenza sulla posizione dell’accento.

Ciò che è meno semplice, semmai è individuare la quantità della penultima sillaba. Finora abbiamo parlato di quantità delle vocali, ma esiste anche la quantità della sillaba – che naturalmente è influenzata anche dalla quantità della vocale che essa contiene. Quindi:

  • Le sillabe che contengono una vocale lunga (o un dittongo) sono lunghe
  • Le sillabe chiuse (che cioè terminano con una consonante, come -el- in pu-el-la) sono lunghe
  • Sono brevi soltanto le sillabe aperte che contengono una vocale breve

Volendo abbreviare, si può ridurre tutto alla terza regola: sono brevi le sillabe aperte con vocale breve; sono lunghe tutte le altre.

Riconoscere la quantità di una vocale richiede un po’ di esperienza o l’uso del vocabolario, ma ci sono alcune regole che possono aiutare. Per il momento limitiamoci a due:

  • Una vocale seguita da una vocale è normalmente breve: si considerino ad es. le prime persone del pres. ind. sentĭo e monĕo, dove i ed e si abbreviano perché seguite da vocale, rispetto agli infiniti sentīre e monēre, dove sono seguite da consonante e quindi possono restare lunghe.
  • le e ed o latine che in italiano diventano ie ed uo sono brevi: ad esempio cómmŏves (perché mŏves > “muovi”); résŏnat (perché sŏnat > “suona”); cónvĕnit (perché vĕnit > ‘viene’)

Sillabazione

Dato che l’accento di una parola latina dipende dalla quantità della penultima sillaba, è ovvio che saper dividere la parola in sillabe è una precondizione indispensabile per decidere come accentare la parola; tuttavia abbiamo lasciato questo argomento per ultimo, dato che le regole della sillabazione latina sono praticamente identiche a quelle dell’italiano: ogni vocale o dittongo forma una sillaba; una consonante singola forma sillaba con la vocale che segue; in gruppi di due o più consonanti, la prima chiude la sillaba che precede, le altre aprono quella che segue. Una volta tanto l’italiano ha più eccezioni del latino, che segue queste regole in modo più costante: quindi avremo fa-bu-la, pel-lis, spor-tu-la, ma anche mag-nus, fes-tus, plaus-trum (nota che au è dittongo, e forma non due ma una sillaba).

L’unica vera eccezione è costituita dal gruppo muta cum liquida, due consonanti (la prima muta, cioè una tra p b t d c k g, e la seconda liquida, cioè l o r) che non possono essere divise tra due sillabe. Si sillaberà quindi pa-tres, du-plex, agres-tis, re-cla-mo (in prosa; in poesia si può talvolta fare eccezione).

A parte questo, occorre ricordarsi che la i seguita da una vocale è di solito semiconsonantica: in pratica, ha valore di consonante e non di vocale, e quindi non forma una sillaba. Quindi ad esempio si dividerà iustus non in tre ma in due sillabe, ius-tus. L’esito italiano della i semiconsonantica è spesso consonantico, in questo caso appunto “giusto”. Infine, le parole composte si dividono in sillabe preservando l’integrità dei loro componenti, a prescindere dalle regole di sillabazione: ad esempio in-e-ro, in-u-ti-lis, per-al-bus, ob-ru-o e non i-nero, i-nu-ti-lis, pe-ral-bus, o-bru-o, dato che queste parole sono composte con le preposizioni in, per, ob.

Concludendo

Per questa lezione non sono proposti esercizi; volendo, si possono fare quelli a p. 6 del manuale di riferimento, con le relative soluzioni disponibili online. Soprattutto, si presti attenzione in futuro a come le frasi latine proposte negli esercizi delle lezioni vengono pronunciate nel file audio corrispondente.

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