Achille e Calipso
STEREOTIPI DI GENERE ANTICHI E MODERNI
E’ facile notare quante delle nostre idee e delle nostre azioni sono influenzate da stereotipi di genere. Ad esempio, ci si aspetta che uomini e donne possano reagire diversamente di fronte a uno stress emotivo: per fare un caso banale, davanti a un film commovente ci pare normale che una donna pianga e un uomo no. Certo, questi stereotipi si cerca di combatterli, e fortunatamente le eccezioni sono innumerevoli – può capitare che a piangere sia l’uomo, o che un uomo e una donna piangano assieme; ma tutto sommato è ancora molto diffusa l’idea che gli uomini debbano nascondere il più possibile le loro emozioni, mentre è più comune che le donne le lascino trasparire più liberamente. L’esempio era banale, ma è abbastanza per suggerire una domanda: questa idea è fondata su una qualche costante antropologica, o è semplicemente un costrutto sociale e quindi soggetta a possibili mutamenti?
Le radici dello stereotipo
Una cosa che si può dire senz’altro è che questa standardizzazione delle reazioni emotive ha radici antiche, che si riflettono anche nella terminologia che usiamo. Un uomo dovrebbe essere ‘stoico’: ed erano appunto gli antichi filosofi stoici, che insistevano sull’imperturbabilità del saggio (oggi, naturalmente, penseremmo ad altri modelli culturali, come la meditazione o le arti marziali provenienti dall’Oriente). Una reazione incontrollata ad uno stress emotivo è invece spesso etichettata come “isteria”, una parola che deriva dal termine greco per indicare l’utero – certe manifestazioni ‘isteriche’ in effetti erano talvolta considerate una caratteristica femminile da alcuni autori antichi – ad esempio, Platone (Timeo 91c):
nelle donne il cosiddetto utero e la vagina somigliano ad un animale posseduto dal desiderio di far figli. E quando non frutta per molto tempo dopo la stagione, violentemente s’irrita e, in tutti i sensi, s’agita nel corpo, ostruisce i passaggi dell’aria, ed impedendo così di respirare, getta il corpo in terribili angosce e v’ingenera malattie d’ogni tipo.Per quanto paradossali e persino offensive possano sembrarci oggi queste affermazioni, il nostro modo di pensare è una lontana conseguenza di concezioni del genere. Tuttavia, una cosa antica non è necessariamente eterna e immutabile. In effetti, nel mondo antico a un certo punto si verificò una sorta di rivoluzione proprio su questo argomento.
Il cordoglio di Achille
Uno degli stress emotivi più pesanti è certamente la perdita di un caro amico: esattamente quello che capitò ad Achille, che vide il caro amico Patroclo morire in battaglia. Se osserviamo qualche dipinto di età moderna, il dolore dell’eroe sembra tutto sommato abbastanza controllato; e lo stesso si ricava da un sarcofago proveniente da Ostia antica e databile attorno al 160. Oggi viviamo in una società fortemente basata sull’immagine, e siamo portati a pensare che le immagini – soprattutto fotografie e filmati – rappresentino la realtà come è; dobbiamo sempre riflettere un po’ per mettere in dubbio questo collegamento diretto tra immagini e realtà. Nel caso specifico però, se per ‘realtà’ intendiamo il cordoglio di Achille come descritto nell’Iliade, queste immagini non rappresentano affatto la realtà; la interpretano, o meglio la stravolgono. Andiamo alle fonti e leggiamo l’Iliade (18, 22-34):
[Antiloco] disse così: e una nube di strazio, nera, avvolse Achille.
Con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa
se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello;
la cenere nera sporcò la tunica nettarea;
e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,
giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli
…
Antiloco gemeva dall’altra parte, versando lacrime,
tenendo le mani d’Achille che singhiozzava nel petto glorioso:
aveva paura che si tagliasse la gola col ferro
Qui vediamo l’eroe più virile dell’Iliade, l’eroe guerresco per antonomasia, dare sfogo al proprio dolore senza alcun freno e perfino desiderare la morte. Confrontata con le rappresentazioni iconografiche viste prima, questa descrizione stupisce non poco: il dolore di Achille in Omero è estremo e incontrollato nelle sue manifestazioni. Questa mancanza di controllo, in effetti, già stupiva i primi studiosi di Omero, i filologi di età alessandrina. Le loro opinioni ci sono conservate dagli scoli, annotazioni a margine dei manoscritti. Nello scolio a margine del nostro brano si legge così:
Zoilo afferma che in questa occasione il comportamento di Achille è indecoroso. Avrebbe dovuto sapere che la guerra è pericolosa per tutti; perciò, non avrebbe dovuto considerare la morte come qualcosa di terribile, e il suo cordoglio eccessivo è effeminato. Neppure una nutrice barbara si comporterebbe così. Perfino il lamento di Ecuba su suo figlio Ettore trascinato via da Achille era nulla in confronto a questo.
Zoilo di Anfipoli visse e lavorò nel IV secolo a.c. – fu più o meno un contemporaneo di Alessandro Magno. Evidentemente, se il modo di comportarsi degli eroi omerici appariva così strano e inappropriato ai lettori come lui, qualcosa dev’essere profondamente cambiato tra i tempi di Omero e l’età alessandrina. Quello che era normale e accettabile in Omero, non lo era più secoli dopo. Vediamo un altro esempio, di segno contrario.
Odisseo e Calipso nell’Odissea
All’inizio dell’Odissea, Odisseo si trova prigioniero ormai da sette anni nell’isola della bella Calipso, che ne ha fatto un po’ il suo toy-boy e non ci pensa affatto a lasciarlo tornare a casa dalla moglie Penelope. Ma il destino chiama, e finalmente gli dei dell’Olimpo mandano Hermes a riferire a Calipso l’ordine di Zeus: è tempo di lasciar ripartire l’eroe. Una separazione forzata, quindi. Eppure, Calipso non reagisce come forse ci aspetteremmo: non è addolorata, ma adirata con gli dei dell’Olimpo che – certamente per invidia, dice lei – la privano del suo giocattolo, del suo toy-boy. Vediamo la sua reazioe, in Odissea 5.116 ss.:
Così Hermes parlava, e rabbrividì Calipso, la dea luminosa,
e a lui rivolta disse parole fugaci:
“Maligni siete, o dèi, e invidiosi oltre modo,
voi che invidiate alle dee di stendersi accanto ai mortali
palesemente, se una si trova un caro marito
Pur se a malincuore, Calipso si adegua: come dice esplicitamente lei stessa, se Zeus comanda, un altro dio non può fare altro che obbedire. Quindi va a cercare Odisseo per riferirgli la bella notizia in Odissea 5.151 ss.:
Sul promontorio, seduto, lo scorse: mai gli occhi
erano asciutti di lacrime, ma consumava la vita soave
sospirando il ritorno, perché non gli piaceva la ninfa.
Certo la notte dormiva sempre, per forza,
nella cupa spelonca, nolente, vicino a lei che voleva:
ma il giorno dopo, seduto sopra le rocce e la riva,
con lacrime gemiti e pene il cuore straziandosi,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.
Accanto gli stette (ἱσταμένη) e gli parlò la dea luminosa:
“Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti
la vita: ormai di cuore ti lascio partire”
Calipso è tanto poco sconvolta dall’imminente separazione – e, aggiungeremmo, tanto poco femminile – che si mette perfino a dare ad Odisseo istruzioni su come costruire una buona zattera; e infine, dopo un’ultima notte d’amore gli porta alcuni dei materiali necessari, e lo aiuta nella costruzione. Anche la posizione dei due personaggi nella scena descritta prima è indicativa: Odisseo seduto a piangere, Calipso in piedi a dispensare consigli e istruzioni (il verbo greco istamene tradotto con “stette” significa propriamente “stare in piedi”).
Odisseo e Calipso in Properzio
Come nel caso di Achille disperato, una scena come questa non poteva, secoli dopo, non disturbare gli stereotipi diversi che nel frattempo si erano venuti formando. Saltando molte tappe intermedie, arriviamo subito a Properzio, poeta latino di età augustea. Properzio deve affrontare un pericoloso viaggio, e si lamenta che la sua donna, Cinzia, non si mostri affatto preoccupata. Per mostrarle quanto la sua indifferenza sia fuori luogo, le fa presente un paragone mitologico (Elegie 1.15.9 ss.):
Ma non così, commossa dalla partenza dell’Itacese,
Calipso pianse un tempo (olim) davanti alle acque deserte.
Per molti giorni sedette, afflitta, scomposti
i capelli, molto parlando all’ingiusto mare,
e sebbene sapesse di non più rivederlo, ella tuttavia
soffriva al consapevole ricordo del tempo felice.
Certo era un bel tipo Properzio. Già pensare di convincere una donna dicendole qualcosa come “le altre si comportano meglio di te!” è strano – ma qui sto ricadendo anche io in antipatici stereotipi di genere. Però, c’è dell’altro. Considerate al secondo verso quell’avverbio olim, “un tempo”. Inevitabilmente ci proietta quello che sta per essere raccontato, la storia di Calipso, in tempi antichi, la fa risalire implicitamente fino ad Omero. Eppure… ormai sappiamo che in Omero le cose non stavano affatto così! Anzi, era esattamente l’opposto: Odisseo piangeva, Calipso non piangeva affatto!
Questa falsificazione non è del tutto fine a sé stessa. Anzitutto, rimette le cose a posto dal punto di vista degli stereotipi di genere: in una storia d’amore, è la donna abbandonata che piange e si dispera, non certo l’uomo. L’uomo, semmai, abbandona e non è abbandonato, e certo non si dispera. Properzio si trova in una situazione scomoda: sta per andarsene, e la sua donna non ne sembra affatto turbata. Quindi ha bisogno di recuperare in qualche modo la posizione dominante, messa in pericolo dall’indifferenza di Cinzia. Il mito di Odisseo che abbandona l’isola di Calipso, rimodellato in questo modo, serve giusto allo scopo.
Quanto a quell’olim, attribuire questa nuova versione direttamente ad Omero naturalmente accresce la sua autorità. Pensate a quello che accade così spesso su Facebook e in altri social. Se pubblico una frase come “quanto è buono il formaggio con le pere” posso aspettarmi reazioni genericamente positive, ma tiepide. Se la pubblico con caratteri grandi, uno sfondo appariscente, e in calce la attribuisco ad Aristotele, posso ben sperare in calorosi apprezzamenti di persone colpite da una tale perla di saggezza dovuta alla mente superiore di un famoso filosofo antico.
Properzio quindi si mostra un abile manipolatore di argomenti. Certo, la sua retorica può risultare convincente soltanto se è vero un presupposto: che Cinzia non conosca bene Omero, e quindi non sia in grado di fare a pezzi facilmente il falso argomento del poeta, che potrebbe sentirsi rispondere qualcosa come “ah, vuoi che faccia come Calipso? nessun problema!”. Ma… Cinzia era così ignorante da non conoscere l’Odissea? Non possiamo saperlo, ovviamente. Personalmente credo che Properzio fosse ben cosciente della possibilità di essere smascherato; nella scelta dell’esempio mitologico è possibile che abbia giocato anche una buona dose di ironia, e di autoironia.
Un dipinto moderno
Molte altre testimonianze ci confermano che il mito di Calipso si è evoluto anche indipendentemente dalle sofferenze amorose di Properzio. Non abbiamo certo il tempo di passarle tutte in rassegna, per cui concluderò con un balzo in avanti di molti secoli ed un passo di lato, dalla letteratura alle arti figurative. Se osserviamo un dipinto di Arnold Böcklin risalente alla fine del XIX secolo, vediamo che il gender divide emotivo perdura ancora, assieme alla manipolazione del mito omerico. Vediamo Calipso seduta che guarda triste verso l’amato in procinto di partire – un po’ come in Properzio. Odisseo invece sta virilmente in piedi, mostrando le spalle allo spettatore: la direzione del suo sguardo e le emozioni sul suo volto possono soltanto essere immaginate. Le posizioni dei due protagonisti sono esattamente invertite rispetto a Omero, dove Odisseo era seduto e Calipso in piedi. L’aura di mistero tipica della pittura simbolista non libera ancora Calipso dal suo ruolo post-omerico di donna triste e abbandonata.
Insomma, gli stereotipi – e specialmente gli stereotipi di genere – sono duri a morire. Certo, conoscerne la storia non ci rende automaticamente capaci di superarli. Però, almeno, ci fa capire che non sono eterni. Se hanno un inizio, evidentemente possono anche avere una fine, ed è possibile cercare di abbandonarli.
Per saperne di più:
- L. Graverini, Calypso’s Emotions, SIFC 107 (2014), 80-95
- L. Graverini, From the Epic to the Novelistic Hero: Some Patterns of a Metamorphosis, in E.P. Cueva, S.N. Byrne (eds.), A Companion to the Ancient Novel, Malden (MA) – Oxford (UK): Wiley-Blackwell 2014, 288-299.